Cecilia Lavatore*

Controlli assenti/L’orrore social che genera assuefazione

di Cecilia Lavatore*
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Lunedì 30 Ottobre 2023, 00:17 - Ultimo aggiornamento: 31 Ottobre, 00:06

«Si sente parlare molto di queste guerre sui nostri cellulari. Spesso e volentieri  capitano degli spezzoni con i bombardamenti di case. Ci sono video in cui vengono lanciati razzi oppure si vedono persone a cui sparano o che non hanno più alcune parti del corpo». Federica, 14 anni.

Correggo il suo tema con il consueto sgomento. Metto le virgolette sopra la parola “volentieri”, poi nella colonna accanto scrivo: scusa Federica, volentieri per chi? Non di certo per lei e per i suoi coetanei soggetti a consumare quotidianamente prodotti audiovisivi di violenza inaudita al fine di gonfiare, attraverso la pubblicità correlata, i profitti di aziende che abusano della fiducia indiscriminata dei loro utenti, specialmente dei più giovani. In buona compagnia dei fedeli e addomesticati algoritmi, le piattaforme dei Social network manovrano i contenuti dell’orrore ben conoscendo il fascino perverso e l’attrazione che la ferocia esercita sulla psiche umana.

La guerra è in questo senso un business per loro, mentre diventa una guerra psicologica per noi e, ancor più grave, per i nostri adolescenti, tanto appetibili dal punto di vista commerciale quanto impreparati a contestualizzare e decodificare lo strazio dei conflitti, già di per sé intollerabile. Dalla Guerra del Golfo in poi le devastazioni delle battaglie e dei massacri sono state mandate in onda con sempre maggiore accuratezza e capillarità, fino ad arrivare nei piccolissimi schermi della fragile e succube generazione Z, cresciuta avvolta nella banda larga ma non per questo più protetta, anzi, tediata da continue emergenze trasmesse in diretta web, perennemente in stato d’allerta. Per noi insegnanti rassicurarli è alle volte un po’ come combattere contro i mulini a vento.

Gran parte dei nostri studenti viene a conoscenza dei conflitti armati solo attraverso post pubblicati da dubbie fonti che compaiono compulsivamente sulle loro bacheche: sono queste le loro uniche informazioni. Ma si possono veramente definire “informazioni”? Era proprio così la rete democratica che speravamo, quella che avrebbe permesso una maggiore distribuzione dei saperi? Si può definire “notizia” e “libertà di stampa” questo insieme di stralci lacunosi, inquietanti, spesso mistificati, di frammentata e indicibile violenza? Simone, 16 anni, scrive: «Tramite il nostro smartphone vediamo video spietati. È brutto vedere persone che muoiono in continuazione, persone che forse avevano dei sogni. Ma è questo che vuole la gente, vuole vedere il dolore altrui. Ci trovano del divertimento».

Nel mio plico, come quello di Simone e Federica, ci sono altri 23 temi di spettatori passivi, comodamente ripiegati nelle loro solitudini, che dichiarano di restare “normalmente” incollati allo schermo di fronte a manciate di secondi di massacri ed episodi di crudeltà illuminata in micro pixel.

Proprio come nei videogiochi, ma il conflitto israelo-palestinese non è un videogioco. Come non è quello in Ucraina. E per quanto molti dei miei studenti non sappiano neanche collocare quei Paesi su una mappa, sanno che le morti che vedono sono reali. Che sono accadute. Nei secoli scorsi, fino alle grandi riforme scolastiche, gran parte del popolo in Italia era molto poco istruito o analfabeta. Passi avanti sono stati fatti, tuttavia, non possiamo certo pretendere che tutti abbiano una formazione storica e una solidità psicologica tale da comprendere e metabolizzare ciò che arriva dal fronte.

Non ci sono gli strumenti. Una giusta e sana autodifesa dalla crudeltà viene meno a contatto con tanta meticolosa “documentazione” e si perde la capacità di affrancarsi dal buio, di sottrarsene per guardare al futuro. Questa morbosità crea assuefazione e l’assuefazione normalizza ciò che dovrebbe restare dalla parte del torto: si assottiglia il confine tra il bene e il male, si confonde e li confonde. Ci sono studenti che diventano apatici e cinici nell’assistere a tanto scempio, ed altri, invece, ipersensibili che si sentono impotenti, frustrati, incapaci di esprimere la loro estrema tristezza, la loro delusione per un mondo che, anche senza accesso ai “reportage” sulla guerra, nell’adolescenza si manifesterebbe come assai deludente. Eppure, questo è un mondo che i giovani devono ancora credere di poter migliorare, di poter ripensare.

Ma quelle brutali immagini entrano nell’esperienza dei nostri ragazzi, nella loro memoria, per poi riemergere in termini di angoscia, nemica dei buoni propositi. La comunità educante deve sollecitare nei più giovani il desiderio di rifiutare quel tipo di comunicazione e cercare piuttosto di costruire cornici di senso intorno alle crisi geopolitiche che ci circondano in questi “tempi liquidi” nei quali ci muoviamo con fatica e, tuttavia, ancora con il bisogno di speranza. Nel frattempo, 41 Stati negli Usa nei giorni scorsi hanno denunciato la società Meta (cui fanno capo Instagram, Facebook, WhatsApp e Messenger) per la mancata attenzione che dimostra verso la salute mentale dei suoi iscritti minorenni, sottoposti a strategie di mercato dannose e totalmente prive di etica. Era ora. Legiferare in materia è diventato quanto mai urgente.

* Scrittrice e insegnante

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