Un nuovo ordine regionale, battere l’inverno jihadista

di Fabio Nicolucci
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Giovedì 19 Marzo 2015, 23:34 - Ultimo aggiornamento: 20 Marzo, 00:18
Un atto di terrorismo può essere un caso, e due segnalare un disagio che ha trovato delle armi e una volontà omicida. Ma il loro accadere ripetuto ancorché ancora disorganizzato e casuale ci costringe a pensare all’esistenza di una vera e propria guerra. Un pensiero a cui noi europei siamo giustamente riluttanti, dato che sul suo rifiuto e sulle sue terribili conseguenze abbiamo edificato prima l’Europa e poi la nostra identità, in particolare noi italiani. Eppure questo pensiero oggi dobbiamo affrontare. Anche per evitare di scegliere per mancanza di alternative l’unica ricetta oggi in campo, e cioè la “guerra infinita” e lo scontro di civiltà propugnato dal non a caso di nuovo vincente premier israeliano Benjamin Netanyahu. Una ricetta che sarebbe esiziale non solo perché corroderebbe il tessuto più vitale delle nostre democrazie, fatto di opportunità di libertà, ma anche perché inefficace.

Per guerra intendiamo un’offensiva non episodica e continuata, con un esercito utilizzato per raggiungere degli obiettivi. Le attuali definizioni di guerra si rivelano però del tutto inutili, perché prevedono la presenza o di attori statuali o di attori asimmetrici ma comunque organizzati.



Più passano i giorni e si susseguono gli attacchi terroristici e fatti di sangue, infatti, più appare chiaro che sicuramente non si tratta di Stati - anche se alcuni Stati hanno concorso alla formazione di gruppi terroristici, come al-Qa’ida e da ultimo l’Isis - ma neppure di attori asimmetrici organizzati, che si spostano sul teatro di guerra: con tattiche di guerriglia se in presenza di una continuità territoriale, oppure terroristiche come poteva essere la prima Al-Qa’ida di Bin Laden.



Anche guardando la foto e l’identità dei due terroristi ragazzini uccisi in Tunisia, si rafforza l’impressione che la guerra esplosa dentro l’Islam abbia prodotto metastasi oramai sparse ovunque. Che portano il conflitto dove è possibile, con le armi a disposizione e gli obiettivi che capitano. Mercoledì scorso del resto, dopo aver tentato con il Parlamento, che poteva significare un messaggio (pur presente in senso generale) di rifiuto della democrazia, i terroristi hanno ripiegato su un museo localmente noto.



Poteva forse essere scelto anche un altro obiettivo, magari un’ambasciata o un convoglio. Questa volontà di colpire fine a se stessa e questa mancanza di coerenza nella scelta degli obiettivi è quanto di più pericoloso vi sia. Perché ci costringe, a meno di non voler militarizzare le nostre vite e tappezzare di sacchetti di sabbia e check point il nostro Paese e di scortare tutti i nostri concittadini all’estero - cosa che nemmeno gli israeliani riescono a fare -, a non sbagliare la cura. Da oggi non sono dunque più permessi errori.



L’inedita forma anarchica di questa guerra è dovuta all’eterogeneità delle sue cause. Su un terreno ideologico e materiale costituito dalle vicende della prima Al-Qa’ida e del jihadismo in generale, e cioè dal fenomeno degli “afghani” reduci dalla lotta antisovietica e dall’orrore dell’11 settembre 2001, si è poi verificato il crollo dell’ordine regionale che era in atto dal 1945. Questa fase costituente, suggellata dalle “primavere arabe” - nome improprio perché deriva da una nostra proiezione e auspicio di occidentali più che dall’analisi dei processi in campo - è purtroppo rimasta alla pars destruens. Si è distrutto un vecchio ordine, ma non costruito uno nuovo. Un contesto nel quale si è quindi assistito alla crisi di ogni Stato mediorientale, seppur in forme diverse.



Da questa situazione si sono poi sviluppati molti focolai di infezione, adesso divenuti veri e propri incendi. Come la crisi egiziana, e il conflitto libico e siriano. Al cui interno è poi partita la versione 2.0 di Al-Qa’ida, costituita dall’Isis, che costituisce - come si è visto anche mercoledì scorso - richiamo lontano ma potente per migliaia di giovani arabi, che si sentono ispirati dai suoi messaggi di morte oppure si sono anche allenati nella palestra di sangue del Califfato. Ma se la distruzione di questo ordine regionale fosse avvenuta in un contesto di stabilità mondiale, forse non avrebbe queste ripercussioni. Così però non è.



Viviamo infatti, per quanto riguarda per esempio la proliferazione, in una seconda età nucleare meno stabile e dunque più pericolosa della prima, e siamo sottoposti a fenomeni potentemente transnazionali come la sfida della cybersecurity - già fenomeno criminale anche se non ancora minaccia nazionale - che amplificano l’effetto di altri quali il terrorismo.

Solo costruire un nuovo ordine regionale più condiviso può dunque offrire un’alternativa ai molti giovani arabi o di questa origine che oggi non resistono alle sirene di morte del jihadismo. Jihadismo che si è sentito escluso dalle “primavere arabe” e vuole adesso far sentire in ogni modo, anche inventandosi un ruolo che al momento in nordafrica ha solo relativamente, la propria presenza.



Non lo si può fare se non si spazza via lo Stato islamico, sia con truppe sia dando il giusto ruolo all’Iran e negoziando con esso. E poi contrattando con l’Arabia Saudita e il Golfo un nuovo patto regionale tra gli attori sunniti oggi in guerra tra loro, e poi uniti nella guerra allo sciita Iran. Ma dopo bisognerà anche prevedere una nuova agenda democratica e di sviluppo per far tornare la primavera nella regione, se non si vuole l’inverno jihadista.