Alessandra Campedelli, ex ct nazionale iraniana volley: «Ho lasciato per motivi etici, mi dispiace per le ragazze. Con lo sport mi batterò per i diritti»

Alessandra Campedelli con la nazionale iraniana di volley
di Maria Lombardi
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Sabato 8 Luglio 2023, 14:38 - Ultimo aggiornamento: 14:46

«Fratelli d'Italia l'Italia s'è desta dell'elmo di Scipio....». Le campionesse della nazionale di volley sorde muovono le labbra e le mani, traducendo le parole in gesti. È il 3 agosto 2017, la prima volta di un inno nazionale nella lingua dei segni. Le atlete allenate da Alessandra Campedelli (48 anni, di Mori, in provincia di Trento) conquistano molto più di un argento alle Olimpiadi di Samsun, in Turchia. Il video diventa virale, il mondo le guarda. «Abbiamo inventato l'inno segnato e poi tutte ci hanno copiato, tante ragazze hanno trovato un riscatto nelle imprese di questa squadra». Un argento agli Europei under 21 nel 2019, un oro l'anno dopo agli Europei senior, e un altro argento ai Mondiali del 2021. Sempre con la stessa ct che le guidava con gli occhi, con un cenno, con le labbra, senza conoscere la lingua dei segni. «Avevamo un codice nostro per capirci senza parlare». Dall'Italia all'Iran, come allenatrice della nazionale femminile di volley, un'altra sfida ancora più difficile. E infine, il recentissimo premio Fair Play Menarini, nella categoria "i valori sociali dello sport" (tra gli altri premiati Deborah Compagnoni, Elisa Di Francisca, Larissa Iapichino). «Vale più di una medaglia, è un premio ai miei valori di lealtà, etica e rispetto. Un orgoglio per me».

 


La sua carriera sportiva comincia con l'hokey sul prato.
«L'ho scoperto alle scuole medie e per 10 anni ho giocato in nazionale, a 23 anni ho smesso, per vari motivi. Grazie al padre dei miei figli, che lavorava nella pallavolo, ho intrapreso il percorso di allenatrice».


Quando è cominciata l'avventura con la nazionale volley sorde?
«Nel 2016 sono diventata l'allenatrice della squadra. A questa Federazione mi sono avvicinata per seguire mio figlio Riccardo, sordo da quando aveva pochi mesi. Con l'impianto cocleare, lui riesce a sentire e parlare senza problemi. Aveva cominciato anche lui con la pallavolo ma a un certo momento è entrato in crisi, così ho pensato che farlo giocare con persone che potevano condividere i suoi problemi l'avrebbe aiutato. Riccardo è rinato, ha capito che c'erano altri ragazzi come lui. La società sportiva sordi mi ha subito chiesto di allenare la serie A maschile, anche se non conoscevo il linguaggio dei segni, e poi è arrivata la nazionale femminile sorde».


Tanti successi, qual è stato il momento più bello?
«La cosa più bella, nei 4, 5 anni con la nazionale, al di là delle medaglie, è l'aver avvicinato a questo sport tante ragazze, l'aver fatto crescere il numero delle atlete sorde. Hanno capito che questa può essere una strada per costruire competenze da sfruttare nella vita».


Poi l'esperienza come allenatrice della nazionale di volley in Iran.
«Ho accettato la sfida, sono partita con tantissimo entusiasmo e tante aspettative. Ma ho incontrato ostacoli di ogni tipo. Sono arrivata a Teheran a gennaio del 2022, ho vissuto nel villaggio olimpico in una cameretta due metri per tre con le sbarre alle finestre. Avrei dovuto comunicare con le ragazze in inglese, ma lo conoscevano in poche. Ho sperimentato la più grande solitudine, era come se fossi io la ragazza sorda. Le atlete si allenano con il velo, tutte coperte, in palestre senza aria condizionata. Siamo riuscite a conquistare medaglia d'argento alle Olimpiadi islamiche, la nazionale non saliva sul podio dal 1966».


Perché non ha voluto rinnovare il contratto?
«Per ragioni etiche: era diventato inaccettabile collaborare con una Federazione che fa capo a un governo che non rispetta la vita, le più elementari libertà, le donne. Ciò a cui non ero preparata era la situazione che si è creata dopo la morte di Mahsa Amini (la 22enne arrestata a Teheran perché non indossava correttamente l'hijab, ndr) e le proteste che ne sono seguite».


Quale è stata la reazione delle atlete iraniane al suo abbandono?
«Molte ragazze e molte allenatrici mi hanno scritto dispiaciute e preoccupate. È triste pensarle là e non poter fare nulla per loro futuro. Ma vorrei continuare a utilizzare lo sport come strumento di emancipazione, di comunicazione e di cultura di regole, di parità e dignità. Mi è arrivata la proposta di allenare le atlete di un altro Paese musulmano, lì vicino. La accetterò, se la Provincia di Trento e la scuola me ne daranno la possibilità».


Come è stato il ritorno in Italia?
«Ci ho messo un po' per riprendermi. E ho avuto modo di riflettere sul fatto che nel mio Paese, nonostante tutto, continuo ad avere meno opportunità dei miei colleghi. Tutte le donne abbiamo meno opportunità, a parità di valore e competenze. Non sono favorevole alle quote rosa, ma resto convinta che ci siano ancora troppi stereotipi e luoghi comuni. Si continua a pensare che nel ruolo di primo allenatore gli uomini siano più efficaci: alzano la voce, si fanno rispettare, sono più forti. C' ancora molta strada da fare».
 

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